Lo scorso novembre la sessione di chiusura di wine2wine di Robert Joseph partiva dalla considerazione che per una cantina operare all’interno di una denominazione è un fattore limitante allo sviluppo di un marchio aziendale forte.
Non si trattava di una provocazione e le ragioni portate da Robert Joseph a sostegno di questa tesi erano sostanzialmente tre:
- La concorrenza interna all’interno della denominazione che costringe la cantina a vendere a prezzi inferiori rispetto a quelli che potrebbe ottenere. Questo di conseguenza limita la marginalità e, di conseguenza, le risorse da destinare allo sviluppo della propria marca.
- La “pigrizia mentale” che porta a definire una proposta di posizionamento appiattita sui valori (comuni) della denominazione e quindi a ridurre la differenziazione della marca aziendale.
- La limitata conoscenza e rilevanza di molte denominazioni per il consumatore in termini di valore percepito.
Sono ragioni che hanno un fondamento su quanto realmente accade, però d’istinto la tesi di contrapposizione tra marca aziendale e denominazione mi ha lasciato perplesso. Siccome è raro che non mi trovi in linea con le considerazioni di Robert sul business del vino, mi sono messo a riflettere per capire se la mia reazione era solo dovuta ad una visione iconoclasta rispetto allo status quo a cui siamo abituati oppure se ci sono effettive differenze di visione.
Dopo un paio di mesi credo di essere riuscito a mettere in fila le idee con sufficiente chiarezza per esporle in modo organico e, in sintesi, confermo che non sono d’accordo con Robert.
Prima di proseguire nel ragionamento bisogna chiarire cos’è (o cosa dovrebbe essere) una denominazione, e il relativo marchio consortile.
Una denominazione serve a riconoscere la reputazione che i vini provenienti da una determinata area geografica hanno ottenuto dal mercato grazie alle loro caratteristiche differenzianti rispetto ai vini generici o provenienti da altri territori ed omogenee tra loro (che non significa uguali).
La ragion d’essere di una denominazione quindi non è quella di dare uno strumento di valorizzazione ai produttori, bensì quella di proteggere i consumatori dall’uso improprio del riferimento geografico. E’ da quest’ultima che deriva lo strumento di valorizzazione.
Conseguenza di questa natura della denominazione è la sua automatica (originaria) rilevanza per il mercato, viceversa non dovrebbe esserci denominazione.
Ultima considerazione: gli elementi e le dinamiche che determinano la forza o meno di un marchio consortile sono gli stessi che si ritrovano per i marchi aziendali: conoscenza e reputazione, determinati dall’intensità e coerenza delle strategie.
L’appartenenza ad una denominazione non è un limite strutturale per lo sviluppo di una marca aziendale forte.
E’ vero che i limiti indicati da Robert Joseph si verificano nella realtà, però non sono connaturati al rapporto tra marche aziendali e denominazioni. Ovvero, operare all’interno di una denominazione non limita automaticamente la possibilità di creare marchi aziendali forti.
La dinamica tra marca aziendale e denominazione è la stessa che c’è tra un marchio di linea/prodotto ed il marchio corporate/ombrello. Ad esempio come nel caso “Tignanello” con “Antinori”.
Si tratta quindi di definire le priorità ed i pesi nella relazione tra il marchio aziendale e quello consortile.
L’appiattimento della proposta di una cantina sui valori e stili di comunicazione comuni della denominazione non è quindi una scelta strutturale necessaria, ma voluta.
Ovvio che una scelta di questo tipo diventa particolarmente negativa quando la denominazione è poco conosciuta e rilevante per il mercato.
Più complessa la questione del prezzo perché una maggior sostituibilità tra vini prodotti da cantine diverse appartenenti allo stesso terroir è intrinseca al concetto stesso di denominazione. E la sostituibilità sarà tanto più maggiore quanto più forte sono conoscenza e reputazione del marchio consortile.
D’altra parte difficile non significa impossibile e la crescita della fungibilità tra i beni appartenenti ad una stessa categoria, quindi in un ambito più ampio rispetto ad una denominazione d’origine, è una caratteristica dell’evoluzione turbocompetitiva che sta caratterizzando tutti i mercati negli ultimi dieci anni.
L’acuirsi della concorrenza di prezzo quindi non è un problema specifico delle denominazioni d’origine ma riguarda la generale difficoltà di creare effettivo valore aggiunto.
L’appartenenza ad una denominazione può favorire lo sviluppo di una marca aziendale forte.
Detto che una denominazione non è intrinsecamente un limite allo sviluppo di una marca aziendale forte, resta la domanda se una denominazione sia un elemento favorevole allo sviluppo di una marca di vino.
Innanzitutto conviene ricordare come le denominazioni siano tra i marchi di vino italiani più conosciuti e riconosciuti dai consumatori, sia sul mercato interno che su quelli mondiali.
Asti, Chianti, Barolo, Prosecco, Amarone, Brunello di Montalcino, ecc… sono marchi a cui vengono riconosciuti determinate caratteristiche e valori. Rappresentano uno strumento importante per permettere alle cantine che non hanno capacità o l’intenzione di sviluppare un proprio marchio aziendale forte di presentarsi sul mercato in modo meno anonimo.
All’interno del sistema vitivinicolo complessivo va sottolineato il ruolo che una denominazione ha nell’aumentare il prezzo pagato per le uve e per i vini sfusi, rispetto ai vini generici.
Questo per ricordare il ruolo e l’importanza delle denominazioni sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta, ma ancora non siamo arrivati alla risposta di se una denominazione favorisce lo sviluppo di un marchio aziendale forte e come.
Secondo me lo favorisce grazie al fatto di collocare il vino a grandi linee in una determinata categoria, permettendo alla cantina di concentrarsi sui propri elementi differenzianti.
Gli esempi sono moltissimi.
Il primo che mi viene in mente è quello dello champagne dove all’interno di una denominazione molto forte sul mercato si ritrovano numerose marche aziendali altrettanto forti che si alimentano reciprocamente in un processo sinergico. Da sottolineare come in champagne i grandi marchi prosperino all’interno della denominazione anche in presenza di grandi cooperative di viticoltori, senza subire competizione di prezzo.
Nel Brunello di Montalcino i “grandi nomi” mantengono un posizionamento ultra premium sul mercato, anche in presenza di produttori che propongono vini rispondenti alla (elevata) qualità minima richiesta dal disciplinare di produzione a prezzi molto più competitivi.
Santa Margherita sarebbe riuscita a rendere il suo Pinot Grigio uno dei più forti marchi di vino mondiali se non si fosse presentata all’interno di una DOC? Io credo che la denominazione abbia giocato un ruolo per rassicurare di fronte ad un vino fortemente innovativo.
Questo non significa che un grande marchio di vino debba necessariamente avere alle spalle una denominazione. Non si tratta di una condizione né necessaria né sufficiente, ma può aiutare a patto che si seguano le regole che sottostanno alla creazione e sviluppo dei marchi in qualsiasi settore:
- Una proposta chiara, unica, differenziante e rilevante per il mercato (quindi sempre prevalenza al marchio aziendale rispetto alla denominazione in tutta la comunicazione, a partire dall’etichetta).
- Delle strategie coerenti nel portare la proposta sul mercato, identificando le categorie/tipologie di persone che si vogliono coinvolgere, andando oltre le classificazioni demografiche generazionali.
- Risorse sufficienti per raggiungere i propri mercati obiettivo sia in termini di presenza (distribuzione) che percezione (comunicazione).
Con una raccomandazione particolare per il settore vinicolo (a parte pochi vini “mito”): nel definire la proposta andare oltre le caratteristiche tangibili del vigneto e del vino perché è così che si passa dal vendere un prodotto a sviluppare una marca.