A dimostrarlo sono plasticamente i dati dell’export al primo semestre di quest’anno che registrano sì la buona crescita del vino italiano, ma soprattutto il forte recupero dei francesi (+40% in valore rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) grazie al traino dei loro spumanti (+56%), Champagne in primis. Forte recupero suona come un eufemismo, perché di vero e proprio boom di tratta. Il confronto con noi Italiani è impietoso: complessivamente, in valore +16%, con le vendite oltre frontiera anche in questo caso trainate dagli spumanti (+26%), grazie alla riapertura del canale Horeca. Il Prosecco in sostanza non può reggere la sfida con lo Champagne. I dati di WineMonitor di Nomisma lasciano poco spazio ai dubbi. Così la proposta di Maurizio Danese e Massimo D’Alema – rispettivamente presidente di VeronaFiere ed Aifi il primo; ex primo ministro italiano, presidente della Fondazione Italiani Europei ed oggi produttore di vino in Umbria – assume il carattere di vera urgenza.
«Non possiamo lasciare il metodo classico italiano senza una chiara identità collettiva – hanno affermato i due alla fine della 14.ma edizione del “Challenge internazionale Euposia” organizzato da The Italian Wine Journal – : i Francesi hanno lo Champagne, noi una serie di piccole denominazioni che sono praticamente impossibili da raccontare e da far valere sui mercati internazionali. Trentodoc, Franciacorta, Vsq…così non si può nemmeno immaginare di recuperare il gap che abbiamo nel valore delle nostre esportazioni. Siamo certamente i primi al mondo per volumi esportati, ma non è sufficiente».
Tanto Danese che D’Alema producono metodo classico. Spiega l’ex premier: «L’ho vissuto sulla mia pelle, turisti francesi in azienda, davanti al metodo classico l’hanno guardato con sufficienza: vin mousseux, effervescente…Qui c’è tutta la loro capacità di narrazione: hanno imposto il mito di Dom Perignon quando noi nemmeno ricordiamo chi ha studiato e scritto dei vini spumanti più di cent’anni prima dell’abate di Reims. Dobbiamo cambiare strada».
Per Maurizio Danese: «Che un grande brand italiano “firmi” il podio nella Formula Uno fa piacere è ovvio, ma è anche sintomatico delle difficoltà che si ha ad imporre il nostro metodo classico all’estero e degli sforzi che bisogna fare per valorizzare la nostra competenza produttiva. E non tutti hanno le spalle così forti per trovare questo tipo di palcoscenico. Questo tema deve entrare nella prossima agenda del mondo del vino italiano».