Lorenzo Biscontin
Un interessante articolo dal titolo “La Francia del vino è in crisi” pubblicato venerdì scorso da Samuel Cogliati faceva il punto sulla situazione del settore viti vinicolo francese partendo dai dati del resoconto annuale delle Safer – Sociétés d’aménagement foncier et d’établissement rural (Società di sviluppo fondiario ed insediamenti rurali).
In sintesi, calano nettamente gli acquisti di vigneti da parte delle persone fisiche sia agricoltori affittuari che esercitano il diritto di prelazione, sia agricoltori non affittuari sia non agricoltori.
Calano leggermente gli acquisti di vigneti da parte delle società agricole, sia affittuari che esercitano il diritto di prelazione, sia i non affittuari.
Crescono invece le transazioni a carico delle società di sviluppo fondiario patrimoniale che, soprattutto, quelle da parte di società non agricole, cresciute del +228% negli ultimi 7 anni.
Complessivamente le compravendite calano del -7,6% in numero e del -12,8% in superfice, quindi con un aumento del valore per compravendita del +15,8%.
In sostanza il mercato fondiario del vigneto francese si sposta dalle persone fisiche, viticoltori, alle società che non si dedicano alla coltivazione e che dispongono delle risorse finanziarie per effettuare compravendite di valori elevati.
Come si può intuire questa tendenza non è uniforme su tutta la Francia, ma vede premiate le zone più prestigiose e penalizzate le altre, quelle i cui vini mostrano maggiori difficoltà sul mercato.
Il valore delle vigne quindi cresce del +8% in Borgogna, dopo il +9% dell’anno scorso, addirittura del +17% nel vicino Jura, in Alsazia e nello Champagne dove il prezzo medio ad ettaro oggi supera il milione di euro, con un moltiplicatore di 3,2 volte nel corso degli ultimi vent’anni.
Da notare che si tratta di regioni settentrionali, meno penalizzate (quando non favorite) dagli effetti del cambiamento climatico, che quindi pare avere effetti anche sui valori fondiari dei vigneti.
Al contrario perdono valore i vigneti del Rodano meridionale, di gran parte della Languedoc e perfino di Bordeaux, con l’eccezione delle denominazioni di maggior prestigio come Puillac, Pomerol, Saint-Julien e Margaux).
In sintesi gli investimenti per l’acquisto di vigneti si concentrano nelle zone più storiche e prestigiose, da parte di società che nella loro gestione tipica non realizzano la coltivazione e quindi sono legate più a logiche patrimoniali-speculative che di reddito.
Un quadro che rispecchia la situazione di mercato non incoraggiante che stanno attraversando i vini rossi e stupisce per la rapidità con cui si è concretizzato, poiché si tratta di un brusco cambiamento rispetto a quanto osservato nel 2022.
In realtà le difficolta del settore viti vinicolo francese si vedevano da tempo:
- Nel decennio 2008 – 2018 la quota delle esportazioni francesi nel mercato mondiale del vino è diminuita sia in volume che valore (a vantaggio soprattutto dell’Italia).
- Questo malgrado l’esplosione dei consumi rosè a livello mondiale, di cui la Francia detiene la leadership indiscussa.
- Il consumo di vino sul mercato interno dal 2010 al 2024 è costantemente diminuito passando da 2,98 a 1,02 milioni di hl (da 46,7 a 22,5 l/pro capite annui).
- Nel periodo è cresciuto il consumo di rosè anche da parte dei consumatori francesi, che già mel 2013 rappresentava il 30% di tutto il vino bevuto in Francia, a scapito soprattutto dei rossi.
- Il consumo di vino rosso a livello mondiale, soprattutto quello francese di qualità “corrente”, è stato sostenuto principalmente dalle importazioni cinesi, che però è sempre stato un consumo in gran parte anomalo legato a status e come regalo, e che sono crollate a partire dal 2017.
- Le tendenze che erano in atto si sono “sospese” nel 2020, 2021 e 2022 in seguito alla pandemia del COVID. Durante i lockdown i consumi di vino hanno tenuto per il ritorno al consumo di pasti in casa e per la voglia di concedersi qualche piacere. Poi sono cresciuti per la voglia di ritrovarsi, potremmo chiamarlo revenge drinking.
Di conseguenza non dovrebbe stupire più di tanto la rapidità con cui sta cambiando lo scenario della domanda di vino perché è la conclusione di un processo cominciato molti anni fa.
Negli ultimi trent’anni Francia Italia e Spagna, principali paesi produttori e consumatori, hanno fronteggiato il calo dei consumi sui mercati nazionali rivolgendosi all’esportazione. Questo portato il settore viti-vinicolo di questi paesi nel suo complesso a focalizzarsi sui mercati esteri, che offrivano maggiori e più facili possibilità di sviluppo, trascurando i mercati interni.
Quando nel 2007 ho cominciato a lavorare nel settore del vino i consumi in Italia erano ancora superiori a 50 litri pro-capite annui e molti operatori erano convinti che si sarebbero stabilizzati su quel valore, visto che si erano già dimezzati rispetto ai massimi degli anni ’70 del secolo scorso.
Attualmente le stime di consumo di vino per il 2024 sono di 22,5 litri per la Francia, 26,3 litri per l’Italia e 21,5 litri per la Spagna.
Quindi dal 2017 ad oggi i consumi si sono ulteriormente dimezzati, dimostrando che è illusorio aspettarsi che si stabilizzassero solo perché erano già calati molto. Per invertire la tendenza vanno affrontate e risolte le ragioni che la determinano, viceversa la tendenza prosegue.
Malgrado questi forti cali Francia ed Italia rimangono il secondo e terzo mercato mondiale a volume, dopo gli USA, ed è quindi evidente come il proseguire della diminuzione dei consumi finisca per impattare sull’offerta. Tanto più oggi, quando i nuovi mercati da esplorare sono sempre meno (è rimasta l’Africa) e quelli aperti trent’anni fa stanno diventando maturi.
Da trent’anni a questa parte la proposta esperienziale del settore vinicolo a livello globale è rimasta sostanzialmente immutata, riconducibile al modello dell’esperto conoscitore che beve vino per degustarlo.
Questo modello ha mostrato i primi segni di crisi vent’anni già fa, quando ha cominciato a diventare un meme. Il settore, intendendo con questo le istituzioni e la grandissima maggioranza delle cantine, ha proseguito imperterrito a proporre vini e linguaggi che parlano più alla grande nicchia degli appassionati piuttosto che al mercato dei consumatori (wine lovers vs. wine drinkers).
Se le proposte di esperienze di consumo non si rinnovano, la situazione cambia repentinamente nel momento in cui escono dal mercato le generazioni di consumatori che di queste esperienze avevano decretato il successo.
Non è solo teoria demografica applicata ai consumi, io l’ho visto succedere in prima persona nel mercato del Brandy Italiano: la produzione del 2010 è stata di 200.000 ettanidri (ettolitri a 100% alcol), quella del 2022 di 1.800 ettanidri.
Urge un cambiamento rapido e radicale.
Nota: Quello del Brandy Italiano non è solo un caso esemplificativo, ma ha anche un legame diretto sui consumi di vino visto che 200.000 ettanidri corrispondono circa a 2.000.000 di hl, ovvero circa il 4% della produzione italiana che deve trovare un’altra collocazione sul mercato.
(nella foto un cristallo di shiraz fotografato alla luce polarizzata. Credits Fernan Federici)