RIFLESSIONE A TUTTO CAMPO CON JAMIE GOODE, GIORNALISTA ED ESPERTO INTERNAZIONALE
Il Regno Unito del vino sta cambiando a vista d’occhio. Oltre a rimanere un forte consumatore di bottiglie di fascia alta e roccaforte dei premium wines francesi, il Paese a nord della Manica si è trasformato in poco più di un decennio in produttore di spumanti metodo classico di alto livello con prospettive di allargamento sui vini fermi (che oggi rappresentano un terzo della produzione complessiva) se il cambio clima continuerà il suo corso come previsto. Anche la certificazione ha iniziato a muoversi: a giugno di quest’anno è nata la prima Pdo (“Protected designation of origin” – Designazione di origine protetta), ovvero il Sussex, a certificare la qualità delle bollicine prodotte nella contea a sud di Londra. Non solo: scienziati e climatologi d’oltremanica concordano sul fatto che alcune zone del Paese, pur rimanendo particolarmente sensibili alla variabilità meteo delle annate, sono diventate ideali per la coltivazione del Riesling, del Sauvignon e del Pinot nero per i rossi fermi, oltre che per gli spumanti insieme allo Chardonnay. E proprio su quest’ultimo vitigno (il primo per superficie coltivata con 1.180 ha di vigneto su circa 3.500 totali), una recente ricerca dell’University of Reading ha pronosticato che entro il 2050 si assisterà a un’ulteriore espansione della viticoltura nel Regno Unito sulla scorta del cambio clima. Cambiamento che porterà, in particolare, il 20-25% delle aree vitate ad avere condizioni ideali per la produzione di Chardonnay da destinare ai vini fermi di alta qualità e non più solo, come oggi, utilizzato quasi esclusivamente per la produzione spumantistica. Di questo e dei principali temi che interessano il nostro settore abbiamo parlato con un conoscitore e osservatore del vino inglese d’eccezione: Jamie Goode, giornalista enologico con un dottorato in Biologia vegetale. Una riflessione a 360 gradi che ci offre una lettura diversa e di grande interesse su temi che trattiamo spesso in queste pagine. Ma viste oltremanica assumono un sapore (e una prospettiva) molto diversa che può far discutere e deve far riflettere.
Jamie, partiamo dall’argomento più scottante e di attualità. Come sta cambiando il profilo organolettico dei vini del mondo in funzione del cambiamento climatico?
Il clima è un fattore importante nello stile del vino, ma ci sono scelte in vigna e in cantina che – almeno fino a un certo punto – possono mitigare qualsiasi cambiamento climatico. Negli anni 90 e all’inizio degli anni 2000 molti famosi vini rossi hanno iniziato ad avere un sapore più maturo e più dolcemente fruttato. Mi domando se questo è stato causato solo dal cambiamento climatico, o deliberatamente da cambiamenti di stile dovuti al fatto che i critici premiavano con punteggi più alti vini più ricchi e maturi. È difficile separare questi due fattori. Ad ogni modo oggi nel complesso molti vini classici hanno un carattere più maturo rispetto al passato, anche se recentemente i viticoltori spesso raccolgono prima e utilizzano meno rovere nuovo per avere più equilibrio.
Dal tuo osservatorio quali sono gli interventi principali che stanno mettendo in campo le aziende vinicole leader a livello mondiale per gestire questo cambiamento?
Le aziende hanno pensato molto a come lavorare in vigna per mitigare gli effetti del riscaldamento climatico. Nelle aree più estreme, hanno sperimentato l’uso del caolino e del telo ombreggiante, hanno lavorato molto sulla defogliazione, anche in termini di tempistiche, testando vitigni più adatti ai climi più caldi, con cicli vegetativi più lunghi.
Quali sono, a tuo avviso, le zone famose che saranno colpite per prime e più pesantemente dal cambiamento climatico?
La regione dove c’è più preoccupazione è la Borgogna. È molto più caldo di prima e il Pinot nero, in particolare, è una varietà sensibile e non ama il calore eccessivo. La preoccupazione è che i migliori vigneti della Borgogna finiscano per produrre vini fruttati e squisitamente varietali, ma che non possano più regalare avvincenti vini pregiati. L’altro problema è che – a differenza di Bordeaux o dello Champagne o di molte altre regioni vinicole pregiate – la Borgogna è molto nota per due varietà, e sarà molto difficile introdurne di nuove, anche se queste ultime potrebbero essere più adatte al clima del futuro.
Parlare di cambiamento climatico significa anche parlare di sostenibilità. Nell’immediato futuro sarà più o meno difficile produrre vini sostenibili?
Penso che il grosso problema non sia il cambiamento climatico ma il caos climatico: non si tratta solo di una tendenza al riscaldamento globale – al quale, al limite, ci si potrebbe adattare – ma di una rottura dei modelli meteorologici tipici. Ciò richiederà più interventi in vigna, cosa di per sé meno sostenibile. La soluzione a tutto questo è creare vigneti resilienti e la viticoltura rigenerativa è un buon modo per farlo. Questo sì, potrebbe essere più sostenibile.
Oggi, l’euforia verso il sostenibile ha incrementato, molto, il fenomeno del greenwashing. Quanto rilevi sia diffuso nel nostro settore?
Il greenwashing c’è e ci sarà sempre. Tutti vogliono seguire i protocolli, ma non tutti hanno la stessa dedizione all’agricoltura in modo davvero sostenibile.
Il termine “sostenibile” va spesso a braccetto con “biologico”. Cosa pensi della differenza tra i due?
Il problema con la sostenibilità è che è un termine ancora vago, che porta con sé molti significati. Esistono molti standard e nessuno, o molto pochi, sanno con certezza cosa comporti. Ma si tratta di un buon punto di partenza: porta i coltivatori a tenere registri e a pensare a come potrebbero migliorare. Il biologico è fantastico, tutti sanno cosa significa, e a livello internazionale gli standard sono piuttosto uniformi. Ma il bio potrebbe non essere il modo più sostenibile di gestire i vigneti.
Oggi tutto sembra green, dal biologico al sostenibile al vegano e così via. L’impressione è quella di una galassia che crea una grande confusione. Come pensi che si possa chiarire?
È proprio qui che penso che la viticoltura rigenerativa possa essere davvero utile, perché è scientificamente razionale, può essere spiegata in modo limpido e tutti la possono adottare. Si tratta di una sfida che va ancora comunicata ai consumatori, ma è un termine privo di zavorre e un modo di coltivare che potrebbe essere realmente sostenibile.
Il mercato accetta il green, ma non sembra disposto a pagare di più per i suoi prodotti. Come si può risolvere questo problema?
Solo convincendo le persone che l’agricoltura conta, che i prodotti coltivati bene sono migliori e che c’è una dimensione etica nel modo in cui acquistiamo. Le nostre scelte fanno davvero la differenza per il pianeta.
All’interno della galassia verde ci sono anche i cosiddetti vini “naturali”, che sono vini contro i quali il sistema vitivinicolo europeo sta lottando, in quanto si tratta di un termine fuorviante per il consumatore. Ti sembra un fenomeno in crescita? Come si spiega il successo di questi vini a fronte della mancanza di regole?
Penso che il vino naturale sia davvero una strada positiva, e in parte il suo successo sia dovuto proprio al fatto che non ci sono regole. È un allineamento non ufficiale di viticoltori che la pensano allo stesso modo, e che vogliono realizzare un prodotto più autentico. Sono le grandi aziende a volere le regole, perché vogliono una fetta della torta: se ci sono regole che dicono cosa sia esattamente un vino naturale, allora possono produrre vini naturali e questo potrebbe aprire loro un nuovo mercato. Ma non capiscono che esiste una sorta di “spirito” del vino naturale, e chiunque provi a regolarizzarlo non si adatta al movimento. Le fiere del vino naturale sono vive e vegete, molti produttori stanno ottenendo successo e i loro clienti sono felici. Allora perché sono necessarie regole? Quasi nessuno di loro si descrive come vignaiolo naturale e non mettono “naturale” sulle loro bottiglie. Per quanto li riguarda stanno solo facendo vini con il minor intervento possibile che riflettano il loro punto di vista. E li mostrano alle fiere con i loro amici.
Quello dei vini “naturali” è quindi un mercato che soddisfa una richiesta di trasparenza sulle pratiche produttive, richiesta che oggi il mondo del vino “istituzionale” non riesce a soddisfare?
Penso che l’elemento attrattivo di questo mondo sia legato all’onestà e trasparenza di questo movimento, e al fatto che ci sia una regolamentazione peer to peer, piuttosto che una dall’alto verso il basso. È un livello di consumo nel quale vengono evitate la produzione di massa, l’eccessiva dipendenza dalla tecnologia e l’utilizzo di prodotti enologici.
Il giovane vigneto inglese
Passiamo al Regno Unito. La nascente viticoltura inglese ha un vantaggio, essendo il Regno Unito già uno degli hub essenziali del commercio mondiale di vino. Come si stanno muovendo le varie aree?
C’è stato un consistente impianto di vigneti e ora gli ettari nel Regno Unito sono circa 4.700. La maggior parte si trova nel sud-est e nel centro-sud: Essex, Kent, Sussex e Hampshire, ma ci sono viti in siti ben protetti in tutto il Paese. La maggior parte sono per spumanti e ora Chardonnay, Pinot nero e Pinot Meunier sono le varietà più coltivate. Oltre a ciò, i vini fermi di annate calde provenienti dalle zone più calde hanno iniziato a diventare più interessanti. La Crouch Valley nell’Essex produce uve eccellenti per vini fermi.
Il Sussex è recentemente diventato Pdo. La richiesta di riconoscimento è forte anche in altre zone?
Alcune persone stanno spingendo in questa direzione, ma a mio avviso è un po’ troppo presto. Il problema è che nei primi sforzi per stabilire le Pdo sono stati utilizzati i confini delle contee. L’esempio trainante è proprio il Sussex, che è solo una linea politica su una mappa: è una zona che ha dei grandi terroir, e alcuni altri assolutamente inadeguati. I siti su gesso nell’Hampshire condividono suoli identici con quelli su gesso nel Sussex, ma poi ci sono siti nel Sussex con terroir molto diversi.
Vino inglese vuol dire, almeno per ora, prevalentemente spumante. Come si posizionano le nuove bollicine inglesi rispetto a prodotti come Champagne e Prosecco, che oggi dividono il mercato con il primo, leader nella fascia alta, e il secondo, nel resto?
In patria gli spumanti inglesi vendono allo stesso prezzo dello Champagne, sono dunque più costosi del Prosecco e del Cava. Ci sono ancora poche etichette iconiche, anche se ci sono un paio di produttori che hanno nella loro gamma cuvée speciali, che fanno pagare molto di più.
Il Regno Unito non è solo un nuovo produttore di spumanti, ma soprattutto un mercato storico di premium wines. Quanto è cambiata l’immagine dei vini italiani sul mercato inglese negli ultimi 10- 20 anni?
Qui occorre segmentare il mercato. Abbiamo sempre avuto un sistema di commercio del vino e di educazione al vino che ha praticamente ignorato l’Italia, perché è un commercio nettamente franco-centrico e anche perché l’Italia ha esportato per molto tempo, e continua a farlo, vini di primo prezzo destinati ai grandi gruppi della distribuzione. Siamo ossessionati dalla Francia e ignoriamo molti dei migliori vini italiani. Non è così in Paesi come gli Usa, dove il vino italiano è famoso. Di recente, però, il commercio del Regno Unito si è svegliato, e ha riconosciuto il potenziale dell’Italia, e ora siamo entusiasti dei migliori vini del Piemonte, stiamo prendendo sul serio il Chianti Classico e stiamo bevendo i nuovi vini dell’Etna. Quindi c’è speranza. Anche la scena del vino “naturale” ha aiutato e l’Italia produce molti vini “naturali” interessanti.
Il Prosecco è un vino di grande successo anche nel Regno Unito. Perché secondo te?
Il Prosecco ha avuto successo perché è un vino economico, ha le bollicine e un buon sapore, e non regala brutte sorprese. Il trade lovede come una categoria redditizia, seppur “opportunista”. È come se per la maggior parte dei consumatori si trattasse di uno spazio senza marchio: comprano una bottiglia di Prosecco, non si accorgono chi è il produttore e di solito ottengono quello che cercano. I tentativi di creare un Prosecco Premium o di convincere le persone a spendere di più per i Prosecco provenienti da vigneti migliori o più belli sono infruttuosi, credo. Il Prosecco ha successo perché è Prosecco, e perché è abbordabile.
I grandi vini italiani, dal Barolo al Brunello, soffrono ancora di un gap di valore con le grandi etichette del resto del mondo?
Non più. I grandi vini italiani ora si collocano sula fascia alta di prezzo di mercato. Non vedo un divario di valore con le etichette del resto del mondo. Vero che il Barolo del supermercato è abbordabile, ma francamente non è il massimo. Qualsiasi Barolo di un grande produttore è davvero costoso. E, spesso, anche difficile da trovare.
Al di là di alcune etichette iconiche, cosa manca alla produzione italiana, se manca, per competere senza paura sul mercato dei vini top?
Penso che la continuità qualitativa sia un fattore determinante. Tutto inizia nella vigna e prosegue fino alla cantina. La vinificazione imprecisa, l’uso di troppo o del tipo sbagliato di rovere e una perdita di attenzione durante l’affinamento sono problemi comuni nei vini di fascia media. La purezza del frutto è molto importante e spesso viene smarrita.
Per concludere, vorrei fare con te il punto su come e dove andrà il sistema produttivo globale. In particolare, il modello europeo, basato su società indipendenti, anche piccole, avrà un futuro o ci sarà una spinta sempre più forte nella direzione dei grandi gruppi?
Tutto dipende dal segmento di mercato di cui si vuole parlare. C’è spesso una disparità tra le dimensioni della produzione e quella del mercato, con troppi piccoli produttori che non si adattano alle dinamiche dei rivenditori più grandi. Il sistema vino ha bisogno di grandi produttori oltre che di piccoli, e un paese in cui i grandi produttori producono buon vino è veramente molto fortunato. Il modello europeo è stato sottoposto a molte pressioni, ma sopravviverà, perché il vino non è facilmente riproducibile e spesso le aziende vinicole a conduzione familiare, più piccole, producono vino migliore rispetto ad alcune più grandi. Per questo motivo, penso che avranno sempre un posto, ma solo se puntano sulla qualità.
L’universo dei cocktail e simili (ready to drink, no-low alcol, lattine e nuovi packaging, ecc.) ha una comunicazione più immediata di quella del vino. Secondo te, il mondo del vino deve cambiare il modo di parlare alle nuove generazioni in un periodo in cui le avvertenze sanitarie bussano alla porta?
Il vino sarà sempre frammentato e complicato. È proprio il vino ad essere fatto così. Ma il vino ha molti fan. Vai a una fiera del vino “naturale” e scopri tanti ventenni che si stanno godendo il prodotto. Vero che il vino ha bisogno di riconsiderare il proprio status sociale e il proprio posto nei paesi che in genere ne hanno bevuto enormi quantità, trattandolo come un alimento tanto quanto una bevanda. Ma in altri paesi, il vino continua a conquistare nuovi fan e penso che non debba preoccuparsi troppo di cocktail e ready to drink: le diverse categorie di bevande possono coesistere tranquillamente. Ritengo ci sia spazio per tutti.
Francesco Annibali