Lorenzo Biscontin
Alcuni giorni fa Angelo Gaja ha rilasciato una dichiarazione sulle differenze tra il vino, i superalcolici e gli aperitivi.
L’intervento di Gaja, ripreso da moltissime testate ed opinion leaders del vino, concludeva con “Nessun’ altra bevanda prodotta in Occidente ha lo spessore culturale del vino: che affonda le radici nell’umanità, storia, cultura, paesaggio, tradizione, religione. Già Noè nella Genesi, cessato il diluvio e sceso dall’arca, piantò per prima la vite perché si potesse godere del vino come alimento e per festeggiare in compagnia”.
Si tratta di concetti interessanti, anche perché sono gli sostanzialmente gli stessi su cui si stanno concentrando le iniziative in difesa del consumo del vino sorte nell’ultimo anno un po’ in tutto il mondo nell’ultimo anno (ad esempio “Vitaevino” promossa dalle diverse istituzioni che rappresentano il settore vitivincolo europeo e “Come Over October”, nata dall’impegno di professionisti statunitensi della comunicazione che ha ricevuto il sostegno di buona parte del settore del vino USA).
I valori di convivialità, cultura, storia e tradizione sono quelli sui quali il vino ha costruito la diffusione di consumo a livello mondiale degli ultimi 30 anni e sono quelli condivisi dai consumatori appassionati. Queste persone vanno da chi degusta con attenzione il vino che beve per ricavarne il massimo piacere a chi definisce il proprio sé in base ai vini che beve, come e con chi li beve.
Si tratta di una grande nicchia, rappresentata in larga parte, ma non solo, da persone oltre i 60 anni e sono il pilastro su cui si regge attualmente il consumo di vino nella maggioranza dei mercati.
Tre anni di contrazione di consumi di vino a livello globale dimostrano però che i consumatori con questo atteggiamento nei confronti del vino, ovvero interessati ai valori descritti sopra, non sono più sufficienti a sostenere il settore nel periodo medio-lungo.
Vale quindi la pena esaminare i valori così spesso utilizzati per valorizzare il vino rispetto ad altre bevande alcoliche da un punto di vista più ampio, considerato che nell’ultimo decennio numerose ricerche rilevano come la principale ragione per cui le persone bevono vino (dal 60% al 70% a seconda delle fonti) sia “per rilassarsi” (il che spiega come mai tra le alternative al vino è apparsa anche la cannabis per uso ricreativo, nei paesi in cui è permessa).
Convivialità: chi si occupa di vinovede il vino come la bevanda conviviale per eccellenza. In realtà seconda dei luoghi, delle abitudini e delle situazioni le persone si ritrovano insieme condividendo caffè, tè, birra, cocktails, spritz (che non è altro che un ready to drink), ecc … fino agli spinelli (dove è legale, sia chiaro).
La vera unicità del vino è che si tratta della bevanda che più spesso di altre è soggetto della convivialità, ovvero gli appassionati di vino quando si trovano spesso parlano dei vini che hanno bevuto, che stanno bevendo, che vorrebbero bere.
Un ottimo argomento per rompere il ghiaccio tra sconosciuti che condividono la propria passione, pessimo per chi vuole solo rilassarsi. E’ il passaggio che abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni da “Tu che hai fatto il corso di sommelier, spiegaci questo vino” a “Tu che hai fatto il corso da sommelier non romperci le scatole col vino e lasciaci chiacchierare in pace”.
Cultura: già Pier Paolo Pasolini nei suoi Scritti Corsari del 1975 evidenziava come la società dei consumi premiasse moralisticamente il fare rispetto al pensare, in una logica anticulturale assunta anche dai mass-media.
Bere il vino in Paesi senza una tradizione storica di produzione e consumo è anche un segno di distinzione culturale, che, oggi più che mai, rischia di diventare più elitista che elitario.
Storia e tradizione: “La tradizione è la trasmissione del fuoco e non il culto delle ceneri” è una famosa frase di Tommaso Moro spesso attribuita a Gustav Mahler (preferisco questa versione a quella più nota che usa “preservare il fuoco” e mi sembra anche più fedele all’originale in tedesco “Tradition ist die Weitergabe des Feuers und nicht die Anbetung der Asche”).
Raccomandazione che però nel settore del vino non si sta verificando se oggi il 37% dei francesi ed il 50% degli italiani non beve vino in assoluto.
I paesi storicamente produttori hanno “risolto” il calo dei consumi nazionali aprendo nuovi mercati esteri dove i consumatori hanno aderito al sistema di valori tradizionali che gli veniva proposto. Ma quanta presa può avere nei “nuovi” mercati un concetto che si dimostra sempre meno rilevante in quelli storici?
Proprio nell’ottica della necessità di allargare ulteriormente i consumi a livello mondiale, non si può dimenticare che in questi trent’anni il peso dei paesi “occidentali” è fortemente diminuito a livello economico, culturale e di popolazione. Gli ultimi dati relativi alla distribuzione delle religioni del mondo risalgono sono piuttosto datati perché risalgono al 2015: allore i cristiani erano il 31,5%, gli islamici il 23,2%, gli atei+agnostici il 16,3%, gli induisti il 15%, i buddisti il 7,1%, i seguaci di religioni tradizionali il 5,9%, gli altri (compresi gli ebrei) l’1% e rimane un 25% indeterminato.
In aggiunta, in molti paesi europei, Canada e Giappone, la religione è considerata importante da meno del 50% della popolazione.
In questo scenario, e lo dico da cattolico praticante, qual è la rilevanza del richiamo alle tradizioni giudaico-cristiane? Quanto un valore aggiunto e quanto un disvalore per chi può vedere il vino come un strumento per diffondere un’egemonia culturale?
Senza considerare che la Bibbia è un libro grosso e ad esempio, Isaia 5,11 e 28, 7 e San Paolo nella lettera agli Efesini 5, 18 si scagliano contro il vino ed i suoi eccessi.
Abbandonare i valori che sono oggi connaturati al vino non sarebbe né giusto né utile, ma senza AGGIUNGERNE dei nuovi sarà molto difficile trasmettere, seppur in altra forma, la tradizione del consumo di vino. D’altra parte, anche noi beviamo un vino che è ben diverso da quello di cent’anni fa.