Lorenzo Biscontin
Non è uno scherzo e non lo dico io. Lo dicono Daniel Rodriguez e Ben Gibson, entrambi entrati nel mondo del vino da poco tempo provenendo da altri settori.
Io sono d’accordo al 100%.
Daniel Rodriguez è l’Amministratore Delegato di Currently Wine Co., la prima casa vinicola basata su una comunità di utenti/consumatori che propone vini legati a progetti di recupero ambientale.
Il loro prossimo lancio di prodotto sarà un Sauvignon Blanc in bottiglia di alluminio.
L’altro giorno su linkedin ha postato questo:
Ben Gibson invece è il fondatore e direttore di Winehub, il plug-in di Shopify per gestire le vendite dirette di vino e bevande alcoliche che sta portando risultati strabilianti alle cantine che lo adottano.
In una recente intervista rilasciata a Felicity Carter per il suo podcast Drinks Insider (che vi straconsiglio di seguire), tra le altre cose, ha detto:
“Perché, sai, man mano che mi addentravo nel settore del vino, ho la sensazione che ci sia, che ci sia una certa miopia. Le persone guardano all’interno piuttosto che all’esterno.
E noi siamo entrati con occhi nuovi, giusto?
Venivamo da una fantastica esperienza globale con grandi marchi sai, industrie farmaceutiche e sanitarie dove è davvero frenetico. Entrare nel mondo del vino è stato come frenare.”
Io non solo sono d’accordo al 1000 per 1000, ma aggiungo anche che queste opportunità si possono cogliere con interventi piuttosto semplici dal punto di vista operativo. Lo dico per esperienza, perché l’ho fatto negli anni passati, quando il mercato del vino andava meglio e quindi era più difficile.
Sembra un paradosso, ma non lo è. Come ben dice Rodriguez l’attuale fase di stagnazione favorisce quelle aziende che abbiano la capacità e la voglia di fare le cose diversamente da come sono state fatte fino ad oggi. E’ semplice anche perché, citando sempre Rodriguez, le questioni sono state ampiamente analizzate e dibattute e “…le risposte sono tutte in quel rapporto …” (Il Rapporto sul settore del vino USA realizzato da Rob Mcmillan della Sylicon Valley Bank).
Detto in altre parole, sappiamo quali sono i problemi e sappiamo quali soluzioni vanno adottate per risolverli.
Allora perché il settore del vino non le adotta? Per i fortissimi vincoli culturali che lo caratterizzano e che sintetizzo in tre voci.
Il vino è il settore della negazione.
Mi riferisco all’abitudine a negare l’evidenza riguardo ai cambiamenti dei comportamenti di consumo nel momento in cui non rispecchiano il modello dell’appassionato ubbidiente come lo vorremmo noi.
Il video qui sotto è preso da “Che Tempo che Fa” del 2008, la trasmissione RAI più vista del sabato sera, con protagonista Antonio Albanese, uno dei comici italiani più famosi, e prende in giro la tecnica di degustazione del sommelier.
Questo è stato il principale momento comico della trasmissione per diverse settimane e dimostra in modo evidente, meglio di qualsiasi ricerca di marketing, come un’ampia fascia della popolazione italiana giudicasse ridicolo il modo classico e “ufficiale” con cui il vino veniva proposto e presentato (ho il sospetto che lo sketch faccia ridere anche in altri paesi).
Ovvero da più di 15 anni sappiamo che il modello classico di degustazione del vino è un meme, però continuiamo a ripeterlo imperterriti.
Volendo guardare a dati più oggettivi è pieno di ricerche pubblicate, quindi disponibili a tutti, che già nel 2018 rilevavano la perdita di penetrazione del vino nelle fasce più giovani di consumatori oppure che mostrano come il consumo di birra e superalcolici sia in crescita o costante, a seconda dei mercati, mentre quello di vino cala. Da due anni il Rapporto sul Vino USA della Silicon Valley Bank individua 60 anni come l’età a partire dalla quale il vino diventa la bevanda alcolica preferita; non proprio dei ragazzini.
In Francia ed Italia, mercati storici di produzione e consumo, il consumo di vino sta calando ininterrottamente da decenni e negli ultimi quarant’anni TUTTO il calo di consumo del vino francese è dovuto alla riduzione del consumo di vino rosso.
Quando questi fatti vengono portati in evidenza da studiosi, analisti e opinion leaders, l’atteggiamento del settore è sempre quello di indicare cause esterne oppure legate alla struttura intrinseca del settore vitivinicolo. Il risultato è che invece di stimolare un cambiamento, o almeno instillare un dubbio, vengono ignorate a beneficio dello status quo.
Avendo lavorato in altri settori prima di quello del vino, mi sono fatto l’idea che la ragione principale di questo approccio è che per la grandissima maggioranza di chi lavora nel settore del vino, il vino è innanzitutto una passione, quando non ragione di vita, prima di un lavoro.
Questo impedisce di avere una visione distaccata dei fenomeni ed implica che mettere in discussione il modello di business significa mettere in discussione se stessi come persone.
Qualunque sia la ragione, il risultato è che alla fine è sempre colpa degli altri che non capiscono, non si impegnano, non studiano, ecc…
Il vino è nemico del marketing.
Su una cosa non sono d’accordo con il post di Daniel Rodriguez: il marketing delle cantine non è fermo al 1994, le cantine l’approccio di marketing non ce l’hanno proprio.
Come approccio di marketing intendo l’impostazione della gestione della marca che parte dal definire la propria identità e posizionamento, individuare le audiences obiettivo e sviluppare una proposta coerente in termini di prodotto, prezzo, presenza e percezione con cui raggiungerle.
(Nota: nel mio concetto di “Marketing Totale” il termine “Presenza” sostituisce la P di “Place – Distribuzione” e “Percezione” quella di “Promo-pubblicità”).
Nel vino invece il marketing è complessivamente sinonimo di propaganda, più o meno occulta, e quindi considerato una cosa maligna e diabolica.
Tanto che è diffusa l’idea, anche in cantine importanti, che nel vino il marketing non dovrebbe esistere perché toglie protagonismo al vino che “parla da solo”.
Viceversa il marketing, quello vero, è lo strumento indispensabile per interloquire con il mercato.
Il settore del vino agisce come fosse monolitico.
Nel vino gran parte delle analisi e discussioni sui problemi del mercato si fanno a livello di settore.
Questo è un limite perché la struttura dell’offerta in realtà non è così omogenea ed è quindi estremamente difficile trovare e sviluppare soluzioni comuni efficaci, senza ricadere in indicazioni generali che facilmente rimangono nel campo delle buone intenzioni.
Soprattutto sono i consumatori a non essere omogenei nei loro comportamenti di acquisto e consumo di vino, richiedendo invece proposte diverse a seconda dei diversi stili di vita, diversi desideri, ragioni e momenti di consumo, differenze socio-demografiche, eccetera.
Il risultato che vediamo oggi è uno stallo in cui le singole cantine sono poco stimolate a sviluppare e comunicare un proprio specifico posizionamento, appiattendosi invece sui tipici, ma indifferenzianti, valori di tradizione, artigianalità, passione, famiglia e focalizzandosi sulla comunicazione delle caratteristiche del prodotto invece che sui benefits (tangibili ed intangibili).
Sarebbe auspicabile che insieme ai ragionamenti macro portati avanti dalle diverse istituzioni ed enti del settore, ogni singola cantina sviluppasse con coraggio la propria strada per affrontare e risolvere i propri problemi di mercato.
In questo modo si amplierebbero le proposte di vino in termini di concetti, valori, prodotti e comunicazione per andare a soddisfare l’eterogeneità della domanda.
E migliorando le situazioni a livello micro ne beneficerebbe anche il settore a livello macro.